Il volume sfida uno dei più assodati pregiudizi legati all'universo storico di Tucidide: la presunta assenza d'interesse per il sacro e per la religione, in ragione del razionalismo "laico" dell'autore delle Storie. La rilettura attenta dell'opera consente oggi di correggere una visione che rischia di essere limitativa e persino fuorviante. Lo "spazio" che Tucidide offre al sacro non appare, infatti, residuale e s'intreccia fittamente con i significati profondi della visione del mondo greco in guerra. Lo spazio fisico del tempio, lo spazio simbolico del rituale, lo spazio verbale del giuramento e della parola sacra trovano un'eco sorprendente nelle sue pagine, che certo non tacciono il "tradimento" e lo svuotamento della religione nell'età della crisi di Atene e della grecità intera, ma senza ricadere negli schemi di un "moderno" agnosticismo. Ancora "figlio" del V secolo, nonostante la sua nuova e geniale sintesi storica, lontana dalla contaminazione dei generi dei predecessori, Tucidide sembra rimpiangere una religiosità arcaica e solenne, che affiora dalla festività antica di Delo o dal tracciato dei primi templi di Atene, e che, ancorché adulterata dalla guerra, resta materia viva d'indagine.