Cosa lega, in questo romanzo-mosaico, le vite dei protagonisti? Un nome, una fotografia, un ricordo spalancato su una fossa comune, un pittore che non vuole più dipingere? La risposta potrebbe essere, per usare le parole di Claudel, «La guerra, che è la più volgare incarnazione del caso». Siamo in Germania, guardiamo le cose dalla parte degli sconfitti, la guerra è finita e rimangono le macerie, nei profili delle città distrutte e nelle storie dei sopravvissuti. Mentre riecheggiano i temi della memoria, della colpa e della storia, lo scrittore si fa strumento, egli stesso più o meno consapevole, di un dispiegamento di destini, e chiama noi lettori a parteciparvi, per diventare scrittori noi stessi. E noi lo facciamo sapendo di approfittare di una scrittura magistrale, di un dominio assoluto dei registri narrativi, di una capacità di calarsi nei personaggi e poi, con un improvviso colpo di reni, di guardarli da fuori: un invito a leggere in questa chiave «le nostre vite, che a noi pare di conoscere ma che padroneggiamo malissimo e che possono, secondo l'angolazione della luce con cui le illuminiamo, prendere molteplici riflessi».